(Video: Moritz Oberholzer, Musica: Ratatat – “Double Pipes”)
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Gli aeroporti sono un posto che mio malgrado frequento spesso. Frequento il controllo sicurezza e passaporti, le sale d’attesa, i bar e quando va bene qualche ristorante. Ovviamente frequento anche le toilette.
L’aeroporto in cui passo più spesso in assoluto è quello della città di Pisa, nel quale hanno recentemente ristrutturato i bagni. Appena rinnovati fui ben felice di provarli: quelli vecchi erano grigi, spesso alcune cabine erano inagibili e gli asciugatori per le mani non funzionavano.
Purtroppo i nuovi bagni hanno un grosso difetto: la foto cellula dello scarico si attiva da sola quando più le aggrada, prima, dopo, ma soprattutto durante quello che devi fare in bagno…
Non so come funzioni per gli uomini, ma nei bagni delle donne ad ogni occasione mi capita di sentire lo scarico del water seguito immediatamente da un urlo o imprecazione. Io ormai ho imparato come ‘truffare’ il sensore, ma non mi sembra un sistema molto funzionale…
Recentemente hanno aperto nuovi bagni aggiuntivi e ho pensato “si saranno accorti dell’errore e avranno cambiato il sistema, o spostato la fotocellula”. Ovviamente no: stesso problema, stesse urla e imprecazioni nei bagni delle signore.
Lo so che non è un argomento elegante questo, ma se un designer di toilette da aeroporto dovesse passare da qui gli/le sarei infinitamente grata se volesse tener conto di queste piccole considerazioni:
1. lo scarico. Come detto poco sopra, non c’è bisogno di un water che scarica continuamente. Se vi piacciono i sensori ottimo: piacciono molto anche a me. Ma per cortesia utilizzate quelli davanti ai quali è necessario agitare la manina per metterli in funzione. Risparmierete acqua e maledizioni.
2. le dimensioni. Se sono in aeroporto, molto probabilmente ho con me una valigia, forse due. Se è inverno magari ho un cappotto ingombrante e ho bisogno di rigirarmi comodamente nel bagno, possibilmente senza toccare i muri o qualsiasi accessorio. Mettete una cabina in meno e fate in modo che non si debba abbandonare la propria valigia alla cortesia di uno sconosciuto o salire sulla tazza per chiudere la porta!
3. i ganci. Il suddetto aeroporto di P. ha fornito i suoi bagni con un gancetto piatto a forma di triangolo rovesciato. E’ così schiacciato al muro che non riesce quasi a trattenere nemmeno il manico sottile di uno zaino! Inoltre nei nuovi bagni hanno pensato bene di appendere il gancio poco sopra il contenitore della carta igienica: una borsa di medie dimensioni si trova inevitabilmente ad appoggiarsi lì sopra. Una borsa di grandi dimensioni semplicemente non ci sta.
4. i contenitori sanitari. Queste specie di cestini destinati – ahiloro! – a raccogliere gli assorbenti igienici nascono ingombranti e malfunzionanti. Sono proprio progettati male, mi spiace: un semplice cestino sarebbe più onesto e maneggevole. Tuttavia se proprio dobbiamo utilizzarli in ottemperanza a qualche prescrizione normativa, almeno evitiamo di fare come nel suddetto aeroporto di Pisa, dove ne sono stati messi qua e là 2 per cabina. Considerato che lo spazio è quello che è, non sarebbe meglio tenerne uno soltanto e svuotarlo più spesso?
Ecco, caro designer di bagni che dovessi passare da qui: non ho niente contro le cannelle a parallelepipedo e le serigrafie sugli erogatori. Puoi cercare di farlo cool quanto vuoi, il tuo bagno, ma per favore: visto che poi deve usarlo un povero viaggiatore abituale, cerca di renderlo almeno decentemente utilizzabile.
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Su consiglio di amici io e dave siamo andati a vedere una mostra un po’ particolare al British Museum.
Grayson Perry, l’artista che vedete anche nel filmato qui sopra, ha raccolto vari oggetti della collezione del museo e li ha esposti insieme a una serie di sue opere.
Arazzi, ceramiche, sculture di ferro o legno contemporanee sono esposte accanto a manufatti antichi di civiltà lontane nel tempo e nello spazio. I temi sono interessanti, la realizzazione eccellente e in generale la mostra è godibilissima.
Io e dave ci siamo divertiti e appassionati in particolare ad alcuni pezzi. All’uscita abbiamo fatto un pensiero sull’acquisto del catalogo della mostra, ma abbiamo rinunciato un po’ per il prezzo un po’ per l’ingombro e il peso fisico che avremmo dovuto portarci dietro fino al rientro a casa.
Nei giorni successivi ho cercato notizie su Grayson Perry, sul suo orso Alan Measles e sulla mostra. Sono quindi finita su un blog del British Museum in cui bastava lasciare un commento ad uno specifco post per partecipare all’estrazione di un catalogo della mostra autografato dall’autore…
… e ho vinto. Così pochi giorni dopo mi è arrivato a casa un bel catalogo con la firma del geniale e bizzarro Grayson Perry!
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Every one who has done any kind of creative work has experienced, in a greater or less degree, the state of mind in which, after long labour, truth, or beauty, appears, or seems to appear, in a sudden glory—it may be only about some small matter, or it may be about the universe.
The experience is, at the moment, very convincing; doubt may come later, but at the time there is utter certainty. I think most of the best creative work, in art, in science, in literature, and in philosophy, has been the result of such a moment. Whether it comes to others as to me, I cannot say.
For my part, I have found that, when I wish to write a book on some subject, I must first soak myself in detail, until all the separate parts of the subject-matter are familiar; then, some day, if I am fortunate, I perceive the whole, with all its parts duly interrelated. After that, I only have to write down what I have seen.
The nearest analogy is first walking all over a mountain in a mist, until every path and ridge and valley is separately familiar, and then, from a distance, seeing the mountain whole and clear in bright sunshine. This experience, I believe, is necessary to good creative work, but it is not sufficient; indeed the subjective certainty that it brings with it may be fatally misleading.
William James describes a man who got the experience from laughing-gas; whenever he was under its influence, he knew the secret of the universe, but when he came to, he had forgotten it. At last, with immense effort, he wrote down the secret before the vision had faded. When completely recovered, he rushed to see what he had written. It was: “A smell of petroleum prevails throughout.” What seems like sudden insight may be misleading, and must be tested soberly when the divine intoxication has passed.
Bertrand Russell, History of Western Philosophy.
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Quando nel 1996 uscì l’album Prendere e lasciare di De Gregori, tra le mie preferite ci fu subito “Un guanto”.
Mi godevo la storia surreale di questo guanto che parte da una pista di pattinaggio, traversa il mare i cui flutti si trasformano in rose e finisce dopo altre peripezie “in quel quadro infinito dove Psiche e Cupido governano insieme”.
Tuttavia avevo la piena convinzione che ci fosse qualcosa che mi sfuggiva.
Purtroppo 15 anni fa internet non era il pozzo profondissimo che è adesso e non mi venne nemmeno in mente che qualche informazione potesse venirmi da lì.
La canzone quindi rimase bella e incompresa, o almeno non compresa fino in fondo.
Riascoltando quell’album poco tempo fa, mi è tornata la curiosità di approfondire l’origine delle immagini e della storia del guanto.
Il pozzo di internet in questo caso mi è venuto egregiamente in aiuto e mi ha fatto scoprire l’esistenza di una serie di incisioni di Max Klinger: Parafrasi del ritrovamento di un guanto.
Le immagini di Klinger aderiscono quasi perfettamente a quelle che avevo nella testa ascoltando la canzone; diciamo che ne sono la versione in bianco e nero.
Consiglio l’ascolto della canzone insieme alla visione delle incisioni.
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Ieri pomeriggio ero in biblioteca e avrei dovuto concentrarmi su una lunga serie di articoli da leggere. Tuttavia la biblioteca comunale della mia città è momentaneamente sprovvista di collegamento alla rete elettrica per gli utenti; quindi avendo tutto il materiale disponibile solo sul portatile, dopo nemmeno un paio d’ore mi sono trovata senza lavoro.
Ormai il sabato era quasi finito e mi è caduto l’occhio su una vecchissima edizione (Sellerio, 1978) de L’affaire Moro di Leonardo Sciascia. Il resto del pomeriggio quindi l’ho passato a leggere d’un fiato il pamphlet di Sciascia.
Nell’introduzione, a proposito della rilettura ex post delle prime lettere di Moro, viene citato il personaggio di un racconto di Jorge Louis Borges, Pierre Menard che aveva riscritto il Don Chisciotte.
Pierre Menard, non aveva “reinterpretato” il Don Chisciotte, non l’aveva tradotto, né ambientato ai suoi tempi. L’aveva riscritto. Uguale. Identico a quello di Cervantes. Il racconto di Borges, contenuto nella magnifica raccolta Finzioni l’avevo già letto (e riletto), ma non lo ricordavo abbastanza.
Ieri sera prima di dormire ho preso il libro che ho sul comodino: Dire quasi la stessa cosa di Umberto Eco. Sulla questione della reversibilità delle traduzioni Eco si chiede: “avrebbe potuto un Pierre Menard borgesiano, che non conosceva il libro di De Amicis, riscriverlo quasi uguale partendo dallo sceneggiato televisivo?”
Due volte nello stesso giorno. Pare proprio che Borges voglia essere riletto oggi.
Infatti per la serata abbandono Eco e pesco il primo dei due volumi dei Meridiani di Borges. Apro a caso l’introduzione di Domenico Porzio e inizio a leggere. Parla subito di Pierre Menard e mi spiega perché aver già letto un racconto di Borges non è sufficiente:
Può muovere da qui una marginale considerazione sulla quasi totalità dei racconti di Borges […] Agiscono questi racconti solo nel momento in cui vengono letti, quasi esemplificando la indispensabilità del lettore perché si produca, di volta in volta, il fatto estetico parzialmente proposto dall’autore.
La pagina di Borges si riceve come una esperienza sempre inconclusa e inesaurita perché ripetibile ex novo: ogni pagina accade per la prima volta ad ogni rilettura; è stata scritta per la scoperta, per l’oblio e la riscoperta.
Poi scopro che Sciascia ha scritto un libro di conversazioni con Domenico Porzio, uscito postumo. Il cerchio si chiude con un nuovo inizio, com’è giusto che sia quando c’è di mezzo Borges. Io rileggo Pierre Menard, autore del “Chisciotte” e vado a dormire.
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Ogni volta che da piccola vedevo la videocassetta di Alice nel Paese delle Meraviglie versione Disney avevo una perplessità.
Durante i famosi festeggiamenti di Noncompleanno arriva il Bianconiglio agitando il cipollotto da taschino; il Cappellaio Matto e la Lepre Marzolina lo intercettano e si impegnano a riparare l’orologio.
Al termine di una scena in cui gli ingranaggi sono ricoperti di sale, burro, marmellata e tè l’orologio impazzisce e la Lepre Marzolina lo distrugge definitivamente con una bella martellata.
La scena della martellata con l’orologio che va in pezzi e le rotelle che saltano ovunque diventa stranamente in bianco e nero. Pochi istanti dopo si vede un perplesso Cappellaio Matto che decretandone la morte ribadisce che comunque l’orologio aveva due giorni di ritardo.
A questo punto il colore sulla pellicola è tornato tutto.
Da piccola non ero riuscita ad ottenere una valida spiegazione. Mi chiedevo se per caso non fosse difettosa la mia videocassetta, ma una volta vedendo il film in televisione notai che c’era lo stesso problema.
Allora ero arrivata a chiedermi se non ci fosse un qualche significato che mi sfuggiva: forse la distruzione dell’orologio causava una specie di interruzione nel flusso temporale del sogno di Alice? Il bianco e nero, chissà perché, mi richiamava alla realtà al di fuori del cartone animato.
Comunque non ero arrivata a nessuna conclusione.
Fonti in lingua italiana su internet parlano di una presunta censura che avrebbe voluto la scena in bianco e nero per diminuire l’impatto cruento del gesto distruttivo. Gli schizzi di marmellata rosa potevano sembrare sangue alle menti facilmente impressionabili dei bambini (!). Da qui la censura cromatica. Ma non ho trovato conferme più ufficiali.
Altrove trovo solo un riferimento a un problema tecnico che avrebbe portato a rimpiazzare alcuni fotogrammi colorati che sarebbero stati persi con quelli in bianco e nero. La spiegazione mi sembra poco convincente, sia per l’improbabilità che la Disney non si curasse di ricolorare la scena, sia perché il passaggio dal colore al bianco e nero pare essere effettivamente graduale.
Sono passati decenni e ancora nessuno mi ha chiarito il dubbio: se qualcuno ne sapesse qualcosa…
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