La stazione di C. è piccola e solitaria, persa tra i paesini toscani dell’entroterra. La mattina arrivo molto presto e la lascio in fretta per andare a chiudermi in un bar, con un cornetto e qualcosa di caldo da bere.
Il pomeriggio talvolta devo aspettare un po’ che arrivi il treno che in poco più di 10 minuti mi porta a casa; così mi siedo su una panchina e leggo. In stazione c’è silenzio, qualche volta ci sono un paio di immigrati che aspettano dormicchiando sull’altra banchina, o una nonna che accompagna il nipote a vedere locomotive e carrozze che passano.
Non c’è biglietteria, né macchine obliteratrici funzionanti; c’è però una campanellina che inizia a suonare quando i treni si avvicinano e, unico baluardo di modernità, la voce pre-registrata che esce dagli altoparlanti ad annunciare arrivi, partenze e treni in transito: sempre lo stesso ritmo, senza cambiamenti di binario dal momento che sono solo due, uno per i movimenti verso est e l’altro per i movimenti verso ovest.
La stazione di C. mi comunica una certa calma. Se perdo il treno delle 16.43 non c’ è niente da fare: o vado in cerca di un autobus, che comunque non migliorerà di molto le cose, o mi metto l’anima in pace e aspetto un’ora intera che passi il treno delle 17.43. Così mi ritrovo ogni tanto in qualche attesa obbligata, senza compagnia se non quella di un libro e in un luogo che offre decisamente poche distrazioni.
Paradossalmente la situazione ha qualcosa di salutare: una sosta forzata lontana dal lavoro, dalla casa, dalle chiacchiere e dal computer che spesso riempiono il poco tempo di ogni giornata, pressandosi a vicenda. Così, talvolta, in quella perdita di tempo immotivata mi pare ci sia un’ora rubata allo scorrere del tempo.